marzo 1998

Titolo:   Opera di Valentin Timofte nella pubblicazione “La Scultura Monumentale in Provincia di Latina”

Data/e: marzo 1998

Breve descrizione:   Opera di Valentin Timofte nella pubblicazione “La Scultura Monumentale in Provincia di Latina”

La Scultura Monumentale in Provincia di Latina
Provincia di Latina
Assessorato alla Cultura, 1998

Avv. Romano Saurini                      Vice Presidente-Assessore alla Cultura

Che il patrimonio dei beni artistici inerenti la scultura monumentale in terra pontina fosse vasto e importante ne ero sicuro. Che fosse così vasto e così importante lo scopro adesso al pari di tutti e a lavoro concluso. Mancava una conoscenza analitica delle opere e la visione d’insieme di esse.
Detto senza enfasi e fuor di ogni tentazione retorica, mancava la percezione esatta di un tesoro artistico che ha buoni e cattivi custodi secondo il grado di sensibilità colto dai nostri ricercatori in più di un anno di felice e proficua collaborazione.
Non senza un pizzico di orgoglio per essere riusciti laddove altre Istituzioni non hanno potuto, la Provincia aveva visto giusto nel conferire al dott. Massimiliano Vittori e ad Alberto Serarcangeli l’incarico per il Censimento e la Catalogazione dei Beni Artistici riguardanti la scultura monumentale in Provincia di Latina.
Con loro, la Provincia ha percorso ogni palmo del territorio, visitato archivi e setacciato ogni fonte per acquisire dati e notizie storiche di ciascun monumento o emergenza monumentale esistente in tutti e 33 i Comuni pontini, relativi borghi e frazioni.
Un lavoro lungo, paziente, difficile, ma, soprattutto, entusiasmante e sistematico, pregevole e di lungo respiro, senza il quale   non sarebbe stato possibile ricostruire un patrimonio artistico così cospicuo e di elevato livello qualitativo, conoscere opere di artisti di prestigio internazionale, opere di artisti che oggi risultano disperse o in pessimo stato di conservazione.
Questo catalogo ne è la sintesi. Di più: questo catalogo oltre a rendere ragione di un censimento certosino ambisce a testimoniare una diffusa esigenza di sensibilizzazione e divulgazione della materia e a porre, in termini seri e concreti, il problema di un recupero generale del patrimonio storico-artistico e culturale della nostra terra comunque inteso.
Su questo piano è da costruire l’Unità della giovane comunità pontina.
Su questo piano ciascuno di noi potrà misurare il grado di civiltà raggiunto come singolo e come comunità.
Ecco perché considero questo catalogo come il primo importante passo di un lavoro ancor più ampio da compiere. Proseguendo da dove e in che modo, vedremo.
Ma le pagine seguenti rappresentano una base solida sulla quale si può continuare a costruire. In Provincia è stata resa tale dall’unanimità che questo progetto dell’Assessorato alla Cultura ha riscosso da parte di tutte le forze politiche rappresentate in Consiglio: buon segno per l’avvenire.
 
Latina, 8 febbraio 1998.                                                                                                     Avv. Romano Saurini
Vice Presidente-Assessore alla Cultura
 

La Scultura Monumentale in Provincia di Latina
Provincia di Latina
Assessorato alla Cultura, 1998

LA SCULTURA MONUMENTALE IN PROVINCIA DI LATINA
Carlo Fabrizio Carli

Non sarà mai sufficiente sottolineare l’utilità di un inventario come il presente, e dell’appassionato lavoro di ricerca che lo sottende. Un impegno che, oltre tutto, prende le mosse da lontano, tant’è che gli autori Alberto Serarcangeli e Massimiliano Vittori hanno all’attivo altre notevoli pubblicazioni sul patrimonio artistico novecentesco della provincia di Latina. La conoscenza costituisce, infatti, non soltanto motivo di arricchimento culturale e di nutrimento della memoria storica di un determinato insediamento urbano e/o territoriale, ma premessa indispensabile dell’azione di tutela.
Ed è noto come sia purtroppo proprio il repertorio moderno, tanto delle arti visive che dell’architettura, quello più inerme dal punto di vista giuridico e pratico; quello più esposto alle manomissioni. L’inesistente o ridotta storicità lo rende infatti indifeso di fronte alle oscillazioni del gusto; al variare, non di rado drastico e passionale, delle scelte ideologiche; al più banale, ma non per questo meno insidioso, vandalismo metropolitano.
Per quanto attiene, in particolare, al nucleo monumentale degli anni Venti e Trenta – davvero fondamentale nel caso della provincia pontina- è stata proprio l’ostilità ideologica a provocarne nel dopoguerra l’incomprensione, lasciando quindi via libera alla dispersione e alla fisica aggressione di molteplici opere, anche ragguardevoli, prodotte nel ventennio storicamente coincidente con lo svolgimento della vicenda fascista.
L’esemplificazione potrebbe essere, al riguardo, nutrita; mi limiterò a citare quattro episodi, del resto ben noti: l’oltraggio censorio perpetrato contro l’affresco sironiano nell’aula magna della Città universitaria di Roma, con guasti probabilmente irreversibili.
Ancora: il brutale stravolgimento architettonico della Casa delle Armi, capolavoro giovanile di Luigi Moretti, al Foro Italico sempre a Roma, trasformata all’inizio degli anni Settanta in aula-bunker per il processo Moro (e poi, presto, abbandonata con attitudine da vandali dissipatori). Trasferiamoci a Latina: ed ecco il lagrimevole caso dell’edificio postale progettato da Angiolo Mazzoni, cospicua testimonianza del “secondo” Futurismo architettonico, letteralmente devastato negli anni Sessanta, con l’eliminazione dell’elemento compositivamente più spettacolare – la scalinata ad arco rampante – e col brutale addossamento alla fabbrica originaria di un banale corpo edilizio. Infine, per quanto attiene all’ambito che più ci interessa in questa sede, quello appunto della scultura monumentale, converrà citare il recente smantellamento del monumento ai Caduti di Imola. E dire che quest’ultimo si deve ad uno dei più significativi tra i nostri scultori di inizio Novecento, Angelo Zanelli, autore pure del davvero superbo bassorilievo centrale dell’Altare della Patria.
Esempi negativi, da impegnarsi ad impedirne di analoghi nel futuro. Ed ecco, dunque, il ruolo fondamentale, prioritario, della conoscenza e, quindi, dell’inventariazione.
Questa ricognizione ora effettuata da Vittori e Serarcangeli potrà, magari, risultare in futuro non definitiva, in quanto qualche ulteriore testimonianza, di rilievo certamente minore, potrà venire segnalata da zelanti cultori di storia locale, giungendo così ad arricchire la messe già insospettatamente vasta di notizie offerta dal volume. Ma questo resterà comunque repertorio fondamentale di riferimento, come pure prova di lungimiranza da parte dell’amministrazione provinciale che l’ha promossa; lungimiranza che ci si augura venga rapidamente fatta propria da altri enti locali.
 Ma veniamo al contenuto dell’opera: questa propone la schedatura di oltre duecento voci di scultura monumentale, beninteso di diversissimo valore in quanto a qualità estetica e ruolo urbano – dal gruppo scultoreo alla targa marmorea, tanto per intenderci – individuate dagli autori nel territorio della provincia di Latina. Il segmento cronologico interessato dall’operazione è quello corrispondente ai meno che centoquarantanni di unità nazionale, dal 1860 ai giorni nostri. Una sola l’eccezione alla delimitazione di tale arco temporale; ma, questa, degna di nota.
Si tratta delle statue di Gennaro De Crescenzo, lo scultore napoletano di formazione neoclassica attivissimo nella decorazione del Palazzo Reale partenopeo, collocate sulla facciata della chiesa di S. Francesco a Gaeta.
Numericamente esigue, del resto, risultano anche le presenze monumentali risalenti all’ultimo scorcio del XIX secolo: per lo più fontane (di Cisterna, Fondi, Norma, Priverno, S. Felice Circeo, Sezze, Terracina), senza peraltro dimenticare la coppia di angeli giudicanti, collocati all’ingresso del cimitero di Sezze, tarda quanto tenace testimonianza di adesione dell’anonimo autore alla temperie stilistica e al modello di sistemazione sepolcrale elaborato dalla sensibilità neoclassico-romantica. In realtà, ancor prima di una valenza propriamente estetica, tali manufatti si fanno portatori di istanze più genericamente culturali, inducendoci a riflettere sul complesso processo di aggregazione del territorio della provincia pontina, istituita il 18 Dicembre 1934, accorpando porzioni già di pertinenza delle province di Roma, Frosinone e Caserta, e quindi provenienti da realtà statuali diverse e di saldissima tradizione storica: lo Stato della Chiesa (mediante i due dipartimenti di “Marittima”, soprattutto, e di “Campagna”), e il Regno di Napoli di cui in particolare Gaeta costituiva notoriamente una delle più munite piazzaforti.
A parte il peraltro assai fine e ancora tutto ottocentesco busto del re Umberto I di G. Ronca, collocato nel giardino comunale di Formia dopo il regicidio di Monza, il vero esordio del nuovo secolo in territorio pontino, per quanto attiene all’ambito della plastica monumentale, è ravvisabile all’inizio degli anni Venti, con la sequenza dei monumenti ai caduti nella Grande guerra. E, se è stato affermato giustamente che i veri, grandi musei della scultura ottocentesca sono i cimiteri, in modo altrettanto fondato può sostenersi che nella sterminata teoria dei monumenti ai caduti in guerra, presenti nelle piazze di gran parte delle città europee, si ricompongono i lineamenti della scultura occidentale del primo trentennio del secolo.
Nella teoria di questi memoriali – sovente, nei centri minori, risolti con semplici lapidi, cippi od obelischi marmorei – è possibile scorgere, nella pianura pontina, soluzioni esteticamente significative. E’, per esempio, il caso della potente Vittoria alata, palesemente ascrivibile ad una temperie tardo-simbolista, di Angelo Ternavasio, autore, appunto, del monumento di Cori. Ovvero il monumento di Formia, opera della scultrice australiana Dora Ohlfsen, che paga il tributo alla data di esecuzione (1924) – così precariamente sospesa tra gli estremi esiti, davvero fuori tempo massimo, della vicenda simbolista-floreale e le avvisaglie novecentesche – nell’evidente dicotomia tra il bassorilievo basamentale, più tradizionale seppure di finissima ideazione, e la statua bronzea di coronamento, che sarà magari facile giudicare alquanto enfatica, ma che è comunque ben più della prima aperta ai nuovi linguaggi.
Dignitosi risultano anche il monumento di Sezze, opera bronzea di Massimo Gallelli, e quello di Castelforte opera di Torquato Tamagnini.
Un discorso a parte merita il monumento di Gaeta che oggi esibisce, su un basamento più antico, una bronzea Vittoria alata, fusa nel 1950 da Guido Galletti, scultore ai discreta notorietà specie nel corso degli anni Trenta, e di cui si conservano tuttora altri due bronzi nella mutila Galleria comunale di Latina (il cui nucleo qualificante consiste, come è noto, in quanto sopravvive dell’ex Pinacoteca di Littoria). In realtà, allorché fu inaugurato nel 1928, il monumento recava una più grande e proporzionata alla base Vittoria alata di Aurelio Mistruzzi, il celebre medaglista e scultore, malauguratamente rimossa e distrutta nel corso della seconda guerra mondiale (di Mistruzzi restano comunque sul basamento due pannelli bronzei). Questa vicenda offre lo spunto per introdurre un ulteriore argomento cui Vittori e Serarcangeli hanno opportunamente dedicato cospicua attenzione, quello delle sculture monumentali disperse nel corso degli anni. In tale repertorio spicca dolorosamente la distruzione per vicende belliche del corredo decorativo – affidato ad artisti futuristi (Ambrosi, Andreoni, Di Bosso, Dottori, Rosso) ed esposto, prima d’essere collocato in opera, nientemeno che alla VI Triennale del 1936- della sala di rappresentanza del palazzo municipale di Aprilia, cominciando dal grande bassorilievo di Enrico Prampolini .
Ma, a questo punto, avendo accennato ad Aprilia e all’attività dei Futuristi in terra pontina, occorre riconoscere di esserci spinti troppo in avanti mentre riesce invece opportuno evocare il grande evento che, tra gli anni Venti e i Trenta, trasformò radicalmente il territorio, vale a dire l’imponente intervento di bonifica delle paludi malariche e la costruzione delle “città nuove”. L’arrivo in massa da altre regioni, soprattutto dal Veneto, di braccianti e coloni; la vastità dell’impresa che aveva registrato il sostanziale fallimento delle iniziative bonificatrici tentate dai papi – da Leone X a Sisto V, a Pio VI; il sorgere rapidissimo delle città di fondazione; gli imponenti lavori condotti ancora con prevalenza della manodopera umana, tutte queste circostanze valsero ad assumere i contorni di una grande epopea contadina.
L’abituale constatazione che l’intervento di bonifica e la costruzione speditissima delle “città di fondazione” (Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia, quest’ultima inclusa nell’ambito territoriale della provincia di Roma, e, quindi, non presa in esame dalla ricerca di Vittori e Serarcangeli, benché – come si avrà modo di ricordare più avanti – il suo corredo di decorazione monumentale si ricolleghi strettamente, per l’ideologia artistica e per le personalità coinvolte, agli altri insediamenti pontini), fosse seguito con estremo interesse tanto in Italia che all’estero, trasformandosi in uno dei principali canali di acquisizione di consenso al Regime, tocca solo marginalmente il nostro discorso. Mentre risulta effettivamente fondamentale l’esito culturale, propriamente stilistico, che tanto fervore realizzativo   impose con decisione. E questo va senza dubbio identificato con il Novecentismo, che aveva – non soltanto in campo architettonico – il suo più noto esponente e il più potente arbitro di gusto in Marcello Piacentini.
Novecentismo significava superamento dell’eclettismo; adozione di una decisa semplificazione formale delle facciate (eliminazione dei cornicioni; sostituzione dei tetti con i  mediterranei terrazzi; riquadratura perentoria dei vani di porte e finestre), recependo suggestioni dell’architettura medievale italiana (le torri degli edifici comunali), anteponendo tuttavia il ruolo monumentale all’adesione funzionale, e conseguendo un singolare effetto di inveramento costruttivo delle architetture “metafisiche”, dipinte un quindicennio prima da Giorgio De Chirico, nella fase più memorabile della sua attività.
Interessanti, ma certamente minoritari, gli spazi riservati a tendenze più avanzate, come il Futurismo e il Razionalismo che, con il progetto del gruppo Piccinato, “firmò” la città capolavoro di Sabaudia. Eppure proprio nel caso di Sabaudia è possibile toccare con mano la giusta osservazione di Paolo Portoghesi, secondo cui, in pratica, pur nelle varie articolazioni, sussista una sostanziale omogeneità della “via italiana al moderno”, e “…come in quegli anni ci fosse una distanza minore fra il tradizionalismo italiano ed il razionalismo italiano che non tra il razionalismo italiano e quello europeo”. In questo percorso, pittura e scultura erano chiamate ad un rapporto nuovo e insostituibile di collaborazione con l’architettura: un ruolo pubblico ed una funzione sociale, in opposizione all’accezione individualistica, estetizzante, intimistica propria della mentalità borghese. Non certo a caso, l’autorevolissimo e ufficiale “Convegno Volta”, promosso dall’Accademia d’Italia, fu dedicato nel 1936 al tema dei “Rapporti dell’architettura con le arti figurative” (vi parteciparono, fra gli altri, Marinetti e Le Corbusier, Giovannoni e Casorati, Canonica e Ojetti, Selva e Carena, Carrà e Ferrazzi, Oppo e Severini, Maurice Denis e Del Debbio, Muzio e Lothe, Ponti e Dudok).
E’ il tempo del muralismo (che trova, oltretutto, riscontri eloquenti in aree geografiche e in contesti politici diversissimi, come il Messico di Rivera e Siqueiros) e della grande scultura monumentale, del cui peso, anche economico, nel contesto architettonico si dibatte in Italia ampiamente, aprendo la strada al varo della cosiddetta “legge del 2%”, che avverrà nel 1942. Di tale ruolo si fanno espliciti teorizzatori, nel 1933, Sironi, Campigli, Carrà, Funi col “Manifesto della pittura murale: “Nello Stato Fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà ad essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale. La concezione individualista dell’arte per l’arte è superata… A ogni singolo artista s’impone un problema di ordine morale. L’artista deve rinunciare a quell’egocentrismo che, ormai, non potrebbe che isterilire il suo spirito, e diventare un artista “militante, cioè a dire un artista che serve un’idea morale, e subordina la propria individualità all’opera collettiva”.
E’ a un simile contesto che guardano, in un linguaggio di dignitosa retorica, molte opere di plastica monumentale che, nel corso degli anni Trenta, trovano collocazione in territorio pontino: i gruppi modellati in cemento da Egisto Caldana per Piazza del Quadrato, o le statue marmoree di autore sconosciuto per il “Palazzo M” sempre a Latina, ovvero i rilievi documentati dal volume, tutti ispirati alla sanità e ai valori della vita rurale.
Ben diversa rilevanza estetica assume ad Aprilia la statua bronzea dell’arcangelo protettore della città, S. Michele, opera (1936) di un Venanzo Crocetti alla vigilia di ottenere la consacrazione a maestro della scultura italiana contemporanea, con la sala personale e il gran premio per la scultura alla Biennale veneziana del 1938 (all’anno precedente, tra l’altro, risale l’architrave della chiesa di Pomezia, scolpito ad altorilievo con episodi della vita di S. Benedetto.  Tuttora crivellato dalle schegge, ferite volute conservare dalla cittadinanza a ricordo della sua vicenda tormentata, il “S. Michele” è l’unica testimonianza superstite dell’originaria Aprilia, interamente distrutta nel 1944, durante la battaglia seguita allo sbarco alleato di Anzio. Un discorso a parte merita la fontana di Piazza della Libertà a Latina, ideata da Oriolo Frezzotti, l’architetto progettista della città. Nonostante l’alta serietà professionale di quest’ultimo, documentata egregiamente dal corpus dei disegni e degli schizzi, è ormai invalso riferirsi a Frezzotti come ad un architetto praticamente sconosciuto, quasi casualmente prescelto per un incarico molto superiore al suo abituale cabotaggio professionale.
Considerazioni a dir poco forzate, se è vero che nel 1925 Marcello Piacentini poteva elogiarne le qualità del progetto, partecipante all’importante concorso per il monumento ai caduti di Milano.
Ma, incontestabilmente, il momento centrale e qualificante della scultura monumentale nella provincia pontina consiste nell’attività di Duilio Cambellotti, che è poi la testimonianza di un radicamento molteplice e vitale nel territorio. L’interesse di Cambellotti per l’Agro romano e pontino risaliva ai primi anni del secolo, ovvero al sodalizio col poeta Giovanni Cena, (commemorato dalla lapide cambellottiana, collocata oggi nella scuola a lui dedicata a Latina) con Sibilla Aleramo e con Alessandro Marcucci, volto alla redenzione sociale degli sparuti abitanti di quelle distese altrimenti deserte, fascinose e mortifere, abbrutiti dagli stenti e da un’esistenza quasi primitiva, falciati dalla malaria: nascono da questa attitudine le decorazioni delle scuole, le illustrazioni dei sillabari, la celebre Capanna dell’Agro Romano all’esposizione di Roma del 1911. Inoltre l’artista romano e la sua famiglia erano abituati a trascorrere le vacanze estive a Terracina: dall”‘osservatorio” della sommità della torre appartenuta nel medioevo ai Frangipane, egli era conquistato dalla latente arcaica epicità della gente dell’Agro, aperto alla fascinazione dell’intatto litorale dominato dal monte Circeo e ricco di echi mitologici, che Cambellotti trasfigurava con la sua ideazione potente e sinteticamente trasfiguratrice.
Gli alti silenzi, le distese sterminate popolate solo di butteri e mandrie, qua e là punteggiate di candidi misteriosi bucrani, l’artista li fissò mirabilmente in un capolavoro  solo per la materiale dimensione dei pezzi: il corpus delle illustrazioni per il volume Usi e costumi della Campagna romana di Ercole Metalli. Cambellotti era dunque naturalmente disposto ad interpretare il significato civile e la carica epica insiti nell’imponente intervento di bonifica, e lo fece su tre diversi livelli espressivi della sua genialmente versatile creatività. Ecco, così, le grandi composizioni a tempera su ardesia artificiale, raffiguranti la Redenzione dell’Agro, collocate nel Palazzo della Provincia a Latina. Ed ecco altresì, sul registro decorativo, l’insieme delle copertine della rivista mensile “La conquista della terra”, organo dell’Opera Nazionale Combattenti, l’ente promotore della bonifica, realizzate tra il 1935 e il 1939. Per finire con l’attività che più ci interessa in questa sede, quella scultorea, che annovera il monumento ai caduti di Terracina (1920; danneggiato durante la guerra, sarebbe stato restaurato dallo stesso Cambellotti nel 1948); quello di Priverno (1933. Nel 1954, un viscerale quanto immotivato sbocco di ostilità ideologica – uno dei nemici più pericolosi, sé già detto, con i quali l’arte moderna a destinazione pubblica s’è trovata a dover fare i conti – interpretando per fascista il memoriale di una guerra iniziata e conclusa vittoriosamente dall’Italia liberale, prima della nascita del fascismo, ispirava una delibera della giunta comunale per la demolizione del monumento; ne sono sopravvissuti solo tre bassorilievi bronzei).  Da ultimo, i rilievi in cemento e bronzo dell’Esedra della Giustizia, eseguiti nel 1936, per la Corte d’Assise del Tribunale di Latina. Fortunatamente, grazie ad un’illuminata iniziativa del Consiglio Regionale del Lazio, tra il 1982 e il 1984, il patrimonio monumentale cambellottiano della provincia pontina si è arricchito di altri tre pezzi prestigiosi, tre fusioni moderne in bronzo da gessi originali: I cavalli della palude pontina (gesso datato intorno al 1910, pervaso di un prepotente dinamismo da entusiasmare Boccioni) grande pannello a bassorilievo, attualmente collocato nell’atrio di ingresso del palazzo comunale di Terracina. Il buttero (gesso datato intorno al 1918-19), affidato al comune di Cisterna, che spiace dirlo, non ha trovato di meglio che relegare la statua in un deposito, senza peraltro impedire il danneggiamento della parte più fragile, la lancia del cavaliere. La fonte della palude, una tra le opere cambellottiane su cui l’artista ripetutamente tornò a misurarsi, la cui ideazione originale risale al 1912-13, attualmente nella raccolta d’arte del comune di Latina (una quarta fusione in bronzo, La pace fu invece collocata presso la sede della Regione Lazio a Roma). Tutte opere ben note, così da esimerci dal dovervi insistere in questa sede; piuttosto ci sembra necessario rammentare la “tendenziosa” e sistematica reticenza critica sulle opere ufficiali di Cambellotti, ritenute evidentemente “imbarazzanti”, di ostacolo politico alla rivalutazione del Maestro romano. “Tendenziosità” che poteva, magari, trovare giustificazione pragmatica un ventennio addietro, allorché si avviò la riscoperta dell’artista, ma che oggi, nei mutati scenari culturali del Paese, si configura soltanto come una prevenzione fuorviante.
Qualche riflessione è poi opportuno formulare riguardo il monumento ai caduti di Borgo Hermada, che Cambellotti realizzò nel 1950. Opera tarda, che non può certo vantare il vigore creativo delle realizzazioni monumentali degli anni Venti e Trenta; oltre tutto, con ogni verosimiglianza, fortemente condizionata dall’esiguità di mezzi economici dei committenti. Ma che riveste, comunque, un cospicuo interesse, per così dire “ideologico”, attestando il permanere nel Cambellotti del secondo dopoguerra dell’attenzione verso temi e soluzioni formali trattati negli anni Trenta e, in particolare, di taluni di quelli che avevano ispirato la nutrita suite delle copertine de “La conquista della terra”.
Con il monumento di Borgo Hermada siamo anche giunti agli anni Cinquanta e Sessanta che, riguardo la tutela della memoria storica di Latina e dei centri di fondazione pontini, furono i più problematici. L’impetuosità del processo di sviluppo demografico ed economico, come pure l’incomprensione di matrice evidentemente politica per l’architettura e l’arte del Novecento italiano, provocarono compromissioni anche gravissime che, se fortunatamente lasciarono pressoché indenne Sabaudia, travolsero invece, impietosamente, l’immagine urbana di Latina ed Aprilia.
Pochi gli episodi in controtendenza, come il sobrio e degno monumento ai caduti in guerra del capoluogo, affidato sagacemente al progettista della città, Oriolo Frezzotti (1959-60). A quegli anni, tutti dedicati alla rinascita economica, si deve inoltre la dotazione di un paio almeno di opere di scultura di tutto rispetto, quale il Volo di rondini di Enrico Martini, artista assai attivo tra le due guerre (fu autore, tra l’altro, della statua colossale di atleta,
destinata da Frosinone allo Stadio dei Marmi a Roma), collocata nel cortile dell’ospedale di Latina; nonché, nella cattedrale sempre del capoluogo, la statua bronzea dell’evangelista S. Marco, opera di Francesco Nagni, anche lui incaricato di commesse prestigiose negli anni Trenta, che interessarono pure lo stesso ambito pontino: basti pensare al bassorilievo con “La vittoria in marcia (1934), posto sulla facciata del municipio di Sabaudia.
La ricerca di Vittori e Serarcangeli interessa anche l’ultimo trentennio, che vede impegnati in territorio pontino nel campo della scultura monumentale alcuni dei più noti artisti italiani contemporanei da Emilio Greco a Umberto Mastroianni, da Domenico Purificato a Simon Benetton – prova di una vivacità culturale, improntata ad un significativo spaziare oltre le demarcazioni di stili e tendenze.

La scultura monumentale in Provincia di Latina – Editore: Mega Network – Anno: 1998 – 183 p

http://www.descrittiva.it/calip/valentin-timofte/1998-sculturaMonumentale.pptx

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